lunedì 31 dicembre 2012

LETTERA D'AMORE


Sai, io non faccio mai bilanci di fine anno, ma stavolta devo fare un'eccezione: gli anni memorabili lo meritano. 
Il 2012 sembrava un anno qualsiasi, con i soliti alti e bassi, con cose belle e cose brutte, fino a quando non ho incontrato te. Ed è un momento che non potrò mai dimenticare: appena ti ho vista per la prima volta ho saputo che ti avrei amata per sempre. Sei entrata nella mia vita come un fulmine a ciel sereno, rivoluzionandola: vivere con te ha cambiato tutto. Nessuno ha mai fatto per me quello che hai fatto e fai ogni giorno. Nessuno mi ha mai dato tanto.
Per il nuovo anno, tutto ciò che voglio è la tua presenza discreta e vitale, ogni giorno. E sperare che sia per sempre.

Ti amo, lavastoviglie.

mercoledì 12 dicembre 2012

L'ANGOLO DELLA POESIA 5


O automobilista
che parcheggi il tuo veicolo
alla cazzo
per tre quarti nel parcheggio dei disabili
e per un quarto nel parcheggio degli scooter
senza avere alcun contrassegno visibile
che ti qualifichi
come disabile
o come scooter

per stavolta
lasciamo perdere gli scooter
ché io ho parcheggiato lo stesso
seppur a fatica
e bestemmiandoti

ma parliamo del posto dei disabili

possa tu
aver pieno diritto al parcheggio
in tali spazî
presto
oh presto

e trovarlo occupato
da uno stronzo par tuo.


lunedì 26 novembre 2012

BETTA CUCINA: PASTA E CECI URGENTE


Io non vado proprio fortissimo in materia d'autostima, ma se c'è una cosa che mi piace di me è il mio nome. Come si può facilmente immaginare, Betta è solo la seconda parte, ed è quella che meglio mi s'attaglia. Io non sono un'Elisa, meno che mai un'Eli (sparo a vista a chiunque mi chiami così, cosa che al lavoro fanno quasi tutti; ma non sanno che ho il bazooka nell'armadietto e che ogni giorno gli sussurro parole dolci per tenerlo buono): io sono una Betta, in alternativa una Betty per chi mi conosce da tanto tempo visto che da piccola mi chiamavano così tutti, anche in famiglia. Mai stata Eli, mai stata Elisa per nessuno. La parte Elisa non è mai proprio entrata in uso, quindi la sensazione non dev'essere solo mia: nella mia immaginazione, infatti, Elisa è nome da creatura sottile, bionda e pallida, dai lunghi capelli lisci e biondi. Betta invece me la figuro mora e ricciolona, una ragazzotta florida e rubiconda. Come me, insomma. Sono pronta ad accettare critiche da parte di tutte le Elise mediterranee e le Bette eteree, ma non mi convinceranno del contrario.
Il mio nome è capitato per caso. La storia familiare narra di un lungo bisticcio tra i miei genitori e mia sorella per decidere come chiamarmi, durato 9 mesi e terminato senza una decisione finale ma solo restringendo il campo a una rosa di tre nomi, uno bello, uno bruttino e uno orrendo: non ve li svelerò qua ché non sarebbe carino se il vostro fosse uno degli ultimi due. Accade poi che in una notte d'estate un bel fagottone di tre kg e mezzo decida di nascere in tutta fretta (rischiando d'essere scodellata nell'ascensore dell'ospedale); la sorella allora ottenne viene condotta a vedere il fagottone, e quando le viene chiesto come la vuole chiamare se ne esce con un nome regale, di cui però nessuno aveva fatto menzione nei 9 litigiosi mesi in cui il fagottone cresceva nella pancia della mamma. Io poi da grande, grata ma curiosa, ho chiesto a mia sorella perché mai avesse scelto questo nome, ottenendo l'illuminante spiegazione "boh, m'è venuto così". Sia benedetta l'ispirazione del momento della sorellona, quindi: poteva andarmi parecchio peggio.
Portando dunque questo nome bello e importante, mi sono trovata negli anni a fare cose stupidissime, tipo leggere biografie di regine e imperatrici omonime (se state per chiedermelo, confesso spontaneamente: sì, ho anche visto tutti i film di Sissi, se volete li cito a memoria), o cercare tracce del mio nome nell'arte.
Dalla musica ho avuto poche soddisfazioni: a parte la canzone del cui 45 giri vedete la copertina in apertura, brano che nessuno ricorda (compresa io) e che è stato talmente celebre da non trovarsi nemmeno su iutùb, l'unica altra menzione di cui io sappia è in un pezzo di Loredana Berté, che dice testualmente "sente freddo Elisabetta, si buca e s'inguaia". Altro che Margherita è tutto ed è lei la mia pazzia, altro che Sara svegliati è primavera, altro che oh please stay with me Diana: una citazione per Elisabetta, ed è una che si droga. Alé. Né va meglio con i diminuitivi; i Kiss a onor del vero tirano fuori un gran bel pezzo, in cui però la povera Beth se ne sta a casa a fare la calzetta mentre egli se ne rimane in giro a suonare tutta la notte prendendola abbondantemente per il culo: just a few more hours and I'll be home to you, come no, sospira la poverina mentre mette su i punti per tricottare un altro paio di pedalini per 'sto stronzo.
Delusa, ho smesso di cercare mie omonime in musica e sono quindi passata alla letteratura: qua ci sarebbe molto da raccontare, ma per brevità ci limiteremo a un solo traumatico romanzo, anzi a un romanzo e al suo seguito.
Due libri nocivi alla salute mentale, che nessuna ragazzina dovrebbe leggere.
Due libri che ti fanno sperare che "Fahrenheit 451" un giorno sia reale e si cominci da loro.
Due libri che nel frattempo che aspettiamo vanno comunque bene per accendere il caminetto.
"Piccole donne" e "Piccole donne crescono".
Ora lo so che tra i miei venticinque lettori ci saranno delle fanciulle che hanno amato tanto questi due romanzi e so che me le inimicherò, ma davvero, son due libri insopportabili. Chi non li ha invece mai letti si fermi qui, perché sto per riassumervi la trama... che consiste più o meno in: la sorellina leziosa, la sorella grande giudiziosa, la sorella maschiaccio su cui tutte puntiamo perché sembra fichissima e invece finisce a sposare un vecchio e già ce l'immaginiamo quando gli dovrà cambiare il pannolone e, infine, la sorella Beth. Beth che è il personaggio più noioso della letteratura terrestre (su quella di altri pianeti non sono preparata - poesia Vogon a parte - ma secondo me si difende bene), Beth inutile e asociale, che come unica attività in tutto il libro ha quella di consumarsi pagina dopo pagina. Capirete che a una girano anche un po' le scatole, ad avere un'omonima così.
Oltretutto, l'una in questione è famosa per ammalarsi di rado ma per ammalarsi sempre in un unico modo: perdendo la voce e con una tosse da tirannosauro, udita dai vicini nel raggio di almeno un km e, vuole la leggenda, anche in Tunisia quando c'è maestrale. Capirete che alla stessa una le scatole centrifugano, quando tossisce come se fosse in punto di morte al pari della sua omonima. Una non fa gesti scaramantici solo perché non è superstiziosa e non è maschio, però le girano, tanto.
Tutto questo preambolo per dire che la vostra blogger scema preferita da quattro giorni è afona e ha una tosse epocale, che in seguito a quattro giorni di cure sta nettamente peggiorando. Il progetto per la giornata di oggi (scrivo di notte e quindi è già oggi, lunedì) è andare dal medico e farmi dare roba più potente; il progetto per stanotte sarebbe quello di riuscire a respirare.

E quindi adesso vado in tutta fretta a raccontarvi la ricetta della mia pasta e ceci, che ho preparato per cena.
Vi chiedete che accidenti c'entri? C'entra, c'entra. Capirete dopo, prima la ricetta: che è molto semplice, e come tutte le ricette semplici richiede ingredienti di qualità.
Punto fondamentale e imprescindibile: dimenticatevi i ceci in scatola. Se volete fare una pasta e ceci veramente buona buona partite dai ceci secchi, non vi offro nessuna alternativa. E teneteli a bagno per almeno una dozzina d'ore, non di meno. Certo, questo implica che dovete sapere il giorno prima che avrete voglia di pasta e ceci il giorno dopo: ma personalmente non esiste un giorno in cui non abbia voglia di pasta e ceci, quindi il problema non si pone.
Una volta ammollati, mettete i ceci a lessare in acqua fredda, meglio se in una bella pentola di terracotta, aggiungendo un rametto di rosmarino, uno spicchio d'aglio e sale e/o dado vegetale a piacimento. Ci vuole un bel po' di tempo: calcolate un'ora e mezzo, anche due. Se dopo due ore di cottura i ceci non fossero ancora morbidi, arrendetevi, non si ammorbidiranno mai più, e la prossima volta cambiate marca. Non buttateli, però: tritateli, fatene polpette e datemi la ricetta.
Diamo invece per scontato che i ceci siamo morbidi e cotti al punto giusto. Toglieteli dalla pentola con brodo e tutto, e nella stessa mettete a soffriggere in olio extravergine d'oliva un trito di carota, cipolla, sedano e aglio; aggiungete i ceci scolati, fateli insaporire nel soffritto, aggiungete il brodo e un'ideina appena di conserva di pomodoro, portate a ebollizione, buttate la pasta (io metto tagliatelle spezzate ma va bene anche pasta corta da minestra), fate cuocere e servite rovente come solo la terracotta sa fare. Una spolverata abbondante di pepe e un generoso giro d'olio buono direttamente nelle scodelle sono tocchi finali talmente impliciti che io non ve li sto nemmeno dicendo.
 

Ieri sera quindi servo la mia bella pasta e ceci a un marito preoccupatissimo per il rapido declino fisico della sua povera consorte, la quale da quattro giorni dorme - poco - tra un attacco di tosse e l'altro seduta sul divano, espone due bagagli da stiva sotto gli occhi, ha il colorito di una mozzarella scaduta già da una settimana e soprattutto fa tremare le mura con la sola forza dei polmoni. Meno male che il marito ha il sonno pesante e la notte ronfa beato mentre io mi abbrutisco (vi risparmio i dettagli, fidatevi sulla parola). Il peggio di me tuttavia ieri l'ho dato nel pomeriggio, quando il marito era sveglio e s'è spaventato sul serio. Ora io vi dico la verità: sono femmina perciò non facile alle lamentazioni fisiche, ragion per cui vi confesso che non sto davvero malissimo; se la tosse mi lasciasse dormire sarebbe appunto solo tosse, roboante ma niente di grave. E tuttavia capisco che sentita da fuori faccia effettivamente paura, così ci marcio un po', molto più della Beth del romanzo, che moriva e pareva pure contenta.
A cena stavo quindi dettando le mie ultime volontà, compresa la destinazione all'amato sposo dell'avanzo di pasta e ceci di stasera. Il dialogo s'è svolto circa così:
Io, drammatica: "sarà l'ultima cosa che mangerai fatta da me... ché poi tu non sai neanche la ricetta..."
Lui, pronto: "l'hai scritta sul blog?"

Capito, adesso?
Ora posso morire, eventualmente, senza rimorsi.
Buonanotte.

sabato 13 ottobre 2012

SEGUI LE TUE BANCONOTE


Ognuno di noi investe (o spreca, a seconda dei punti di vista) il proprio tempo libero in modi più o meno bizzarri. Uno dei miei hobby (o hobbies, o passatempi e ci togliamo il pensiero) è tracciare banconote, vale a dire registrare il codice di ciascuna in un sito che si chiama EuroBillTracker. Se pensate che io sia pazza, sappiate che in Europa siamo in molti a fare questa cosa bislacca e per il momento abbiamo tracciato, in tutto, oltre cento milioni di banconote. A cosa serve? Semplice: a vedere dove sono state e dove andranno, in giro per l'Italia, per l'Europa e per tutto il mondo. Funziona in modo molto semplice: voi inserite i dati di una banconota e, se questa è già stata in mano a qualcun altro, il sito ve lo dice, informandovi su dove sia stata e quando. Se voi invece inserite una banconota per la prima volta, il sito vi avviserà quando sarà ritrovata da qualcun altro e vi dirà dov'è arrivata e quanta strada ha fatto. Non so voi, ma io lo trovo strepitoso.
Immaginate, com'è davvero successo a me, di ricevere un resto, per esempio, al mercato di Cagliari acquistando formaggio (cosa che faccio spesso e volentieri, come il mio colesterolo può raccontarvi) e sapere che viene da Monaco di Baviera; oppure di ricevere un resto alla stazione di Pisa comprando biglietti del pullman (credo per andare al supermercato e acquistare altro formaggio) e sapere che viene da Malta; oppure ancora di spendere le mie banconote all'ufficio postale dell'aeroporto di Elmas (no, non per acquistare formaggio per corrispondenza) e sapere che una di queste viene ritrovata sul Lago Maggiore. Dai, non ditemi che non sembra fichissimo anche a voi.
Se vi ho incuriositi, potete fare un giro sul sito e decidere d'iscrivervi: è gratis, vi chiederemo solo di inserire i codici delle vostre banconote ma dopo, garantisco, potrete tenervele. E spenderle augurando loro buon viaggio.
Se non vi ho incuriositi, vi dirò allora che mi hanno sempre appassionata le scritte sulle banconote, e che questo hobby mi ha portata ovviamente a notarle ancora di più. Spesso la cosa è interessante, qualche volta è divertente.
Qualche volta invece mi pento e vorrei cavarmi gli occhi per non vedere più.
Condivido quindi con voi il mio dolore e la scansione di quanto la cassa automatica del supermercato m'ha sputato contro un paio di giorni fa. Poi magari voi che mi leggete siete ggiovani e parlate tutti così, ma io ho un'età che risponde alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto, e di conseguenza mi agghiaccio.


O amica/o che "lovi" Pepe, nella speranza che Pepe ricambi i tuoi sentimenti indubbiamente sinceri e altrettanto indubbiamente male espressi, t'auguro che un libro di grammatica italiana ti colpisca in piena fronte, lasciandoti in ricordo un bernoccolo nonché la voglia d'aprirlo (il libro, non il bernoccolo) (lo specifico, ché mi pare tu abbia scarsa dimestichezza con l'italiano e non vorrei essere responsabile d'un tentativo di autoaffettarti la testa).


sabato 8 settembre 2012

BETTA CUCINA: LA PIZZA. SERVONO ULTERIORI DESCRIZIONI?


Come dicono quelli seri, l'articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale.

Una volta avevo un fidanzato originario della provincia di Caserta. Il fatto che l’avessi e non l’abbia più implica che come fidanzato non fosse un granché. Ora, sui suoi lati spiacevoli quest’oggi sorvoleremo, non perché noi donne non ci divertiamo a rivangare gli errori passati pur di deprimerci anche quando non serve, ma perché non ci è utile ai fini della ricetta che sto per raccontarvi. Poi, se siete donne e siete in piena depressione premestruale, fatemi uno squillo così ci piagnucoliamo sulle rispettive spalle armate di vasetti da 3 kg di Nutella: vedrete, dopo andrà meglio.
Ma per onestà nei confronti dell’ex fidanzato, bisogna dire che una dote l’aveva: sarà stato il sangue campano, sarà stato che di lavoro faceva mattoni a mano (che aiuta ad affinare le tecniche d’impasto), ma in tutta sincerità sfornava una pizza spettacolare.
Questo, care ragazze (e ragazzi: anche se non avete la sindrome premestruale, certe lezioni sono sempre utili), c’insegna che anche gli stronzi hanno pur sempre qualcosa di buono, e altresì che saper cucinare conferisce potere sui cuori altrui.
Questo, care ragazze (e ragazzi, come sopra), c’insegna anche però che, se stiamo con degli stronzi che sanno cucinare, bisogna carpire le loro tecniche e, quando saremo diventate altrettanto brave (e bravi), assestare loro un bel calcione nel didietro.
Eccovi quindi la mia personale ricetta per la pizza, che si basa su quanto imparato all’epoca e che è stata perfezionata con gli anni, fino a diramarsi in due versioni che andrò di qui a breve a narrarvi: con impasto a mano e con impasto per la macchina del pane. Eh già, perché non avendo più un ex fidanzato pizzaiolo stronzo bensì un attuale marito policuoco e di buon cuore, lo scorso Natale ho ricevuto in dono la macchina del pane Kenwood, che da dicembre funziona a ciclo continuo. Ho aumentato così dell’800% il mio consumo di carboidrati e ho imparato che impastare a mano è gratificante e divertente ma, se qualcun altro fa il lavoro al posto tuo, oziare nel frattempo è anche meglio.

Partiamo dal punto fondamentale: il segreto di una ricetta strepitosa sta nell’usare ingredienti strepitosi. Anche nel cucinarli, è vero, ma se siete bravi cuochi e fate gli spaghetti del discount, avrete degli spaghetti schifosi nonostante tutta la vostra bravura.
Per la pizza made in Betta, il segreto segretissimo è la farina adatta. Io, dopo numerose prove (che erano tutte ottime scuse per fare molte pizze di test), ho concluso che la migliore è la farina "0" Manitoba di marca "Le Farine Magiche Lo Conte". Vi assicuro che non mi pagano, per quanto dovrebbero, dato che faccio un consumo smodato dei loro prodotti (uso la stessa farina anche per il pane, ne faccio fuori un quintale al mese). La trovate, penso, in tutti i supermercati grandicelli, ma io la compro alla Conad perché i commessi sono simpatici e ho tra loro un paio di ammiratori e ammiratrici dei miei tatuaggi. Come rinunciare a un po’ d’autostima gratis mentre si fa la spesa? Sarebbe come non prendere i bollini omaggio per le pentole. Non si può. Occhio che della stessa marca c'è anche una farina appositamente "per pizza", ma secondo me con quella la pizza viene meno buona. Se volete, provatele entrambe e poi ditemi. Riconoscerete in ogni caso la farina giusta dalla confezione rosa, nel caso in cui non sappiate leggere.
Segreto aggiuntivo: il lievito. Ora vi confesso una cosa di cui mi vergogno profondamente, ovvero che io non uso quello fresco in cubetti perché non ottengo buoni risultati. Ok, potete insultarmi per il prossimo quarto d’ora senza soluzione di continuità, ma fidatevi, il risultato sarà ottimo comunque anche con il lievito secco. Io mi trovo bene con il "Mastro Fornaio" Paneangeli, ma penso che possa andare bene qualsiasi lievito secco che lievita fuori dal forno; non vanno bene invece quelli a lievitazione istantanea, perché la vostra pizza dovrà lievitare, per l'appunto, fuori dal forno.
Segreto inatteso: il latte in polvere. Non quello da bambini, proprio il latte in polvere vero, da adulti. Vi dico subito che qui è stata un’impresa trovarlo: ho scovato in un negozio di prodotti etnici quello della Nestlé, che è notoriamente una multinazionale cattiva e lo dimostra chiamando “Nido” un prodotto per adulti e confondendo quindi le idee dei consumatori. Se ne trovate un’altra marca va bene lo stesso, meglio se ha il nome meno ambiguo. Ho cominciato a usarlo nell’impasto del pane per far uscire più croccante la crosta, e ho cominciato a metterlo anche nell’impasto per la pizza per ottenere lo stesso risultato. Perché non ve l’ho detto, ma la vostra pizza avrà una crosta enorme, soffice e goduriosa, e il latte in polvere aggiungerà l’effetto croccante fuori/morbida dentro che farà innamorare perdutamente di voi i vostri commensali.
Poi il pomodoro: io uso pelati d'inverno o pomodori freschi d’estate, li spiaccico (se pelati) o trito a dadini finifini (se freschi) e li lascio a marinare anche per tutta la durata della lievitazione della pizza con sale e pepe.
Ri-poi la mozzarella: dopo aver vinto le mie resistenze psicologiche, mi sono convertita ai panetti di mozzarella per cucinare, che hanno l’indubbio vantaggio di essere più asciutti e non “ammollare” la pizza. Per la marca fate voi secondo il vostro gusto, se siete in Sardegna consiglio Arborea. Se volete usare mozzarella di bufala non sarò certo io a impedirvelo, m’autoinviterò anzi da voi a cena: ma fatela scolare quanto più a lungo potete.
Infine gli altri ingredienti essenziali: l’acqua, che dovreste avere tutti; il sale, che pure dovreste avere tutti (so che me lo chiederete: sì, sono toscana, sì, mangio il pane senza sale anche se a voi fa schifo, sì, nella pizza in Toscana il sale lo mettiamo); lo zucchero, che vi serve per la lievitazione; l’olio, che, non sto nemmeno a dirvelo, se non è extravergine d’oliva io con voi non ci parlo.
Non dovrebbe esserci bisogno di specificarlo ma vabbè: sebbene io sia una fan della cucina improvvisata, per la pizza è indispensabile misurare/pesare tutto. Io peso anche acqua e sale, non soltanto per precisione ma soprattutto perché ho una clamorosa tendenza a sbagliare il sale negli impasti, mentre la bilancia non sbaglia mai (che è altresì un ottimo motivo per non salirci mai sopra). Vi servono quindi: 500 grammi di farina, 300 ml d’acqua, 4 cucchiai d’olio, 10 grammi di sale, 2 cucchiaini di latte in polvere, 2 cucchiaini di zucchero, una bustina di lievito. Con questi ingredienti otterrete tre pizze: una per voi, una per la persona che vi sta a cuore e una perché la persona che vi sta a cuore vi implorerà di avere il bis (della pizza: d’altro non m’interesso e sono problemi personali di ciascuno di voi nei quali non voglio ficcanasare) e alla fine della seconda pizza vi giurerà amore eterno.
E adesso diramiamo la ricetta:

RAMO IMPASTO A MANO
- per luddisti e sportivi -
Mischiate la farina con il lievito e due cucchiaini di zucchero, come specificato sulla bustina (non oserete disobbedire al signor Paneangeli, spero). Mettete la farina sul tavolo nella obbligata configurazione “a fontana”, poi aggiungete il sale, il latte in polvere, l’olio e l’acqua, poca per volta, incorporandola man mano che impastate. La pasta deve essere lavorata per un bel po’, almeno per una decina di minuti o almeno finché non vi rompete le scatole: l’importante è che non ve le rompiate prima di aver impastato almeno per una decina di minuti. E va lavorata energicamente: se avete le manine dal tocco delicato, fate la pasta frolla o la pasta brisée (delle quali con calma arriveranno apposite ricette, restate sintonizzati) e lasciate stare la pizza, che è roba da gente ruvida.
L’impasto deve poi essere diviso in tre palle e messo a lievitare. La lievitazione deve avvenire in ambiente calduccio, umido e non ventilato, cosa abbastanza facile qui a Cagliari (tranne quando imperversa il maestrale, ma in quel caso metto l’impasto in una stanza con finestre chiuse), meno a Trieste o sulle Dolomiti. Se fa abbastanza caldo, io metto l’impasto sul tagliere di legno infarinato, lo copro con uno strofinaccio da cucina asciutto e ci metto sopra un altro strofinaccio appena umido. Se fa freddo, faccio la stessa cosa e poi pongo tutto davanti alla stufa, girando di tanto in tanto con cura e devozione, altrimenti un lato resta freddo e uno comincia a cuocere fuori dal forno.
La lievitazione richiede il suo tempo: ci vogliono almeno tre ore. Lasciare la pasta a lievitare più a lungo non farà male, lasciarla meno farà malissimo perché rischiate una pizza lievitata solo in parte e il conseguente effetto macigno nello stomaco.

RAMO IMPASTO A MACCHINA
- per tecnologici e pigri -
Buttate tutto dentro alla macchina del pane secondo istruzioni della stessa e lasciate fare a lei, mentre voi vi fate i fatti vostri per tutti il tempo.
Per essere più precisi, nella mia macchina del pane (lei) funziona così: si mettono prima l’acqua e l’olio, poi la farina, versandola a pioggia in modo da non creare uno tsunami di acqua e olio, poi sale, zucchero e latte in polvere e infine il lievito. Le istruzioni della macchina specificano di non mettere il lievito a contatto con altri ingredienti che non siano la farina (il signor Kenwood ha coraggio da vendere e disobbedisce al signor Paneangeli). Conviene quindi mettere sale, zucchero e latte in polvere verso l'esterno del cestello, poi scavare un minicratere al centro della farina e metterci il lievito.
(Ora voi mi chiederete perché nell’impasto a mano si debba mischiare tutto mentre nell’impasto a macchina debba essere tutto separato: io lo so, ma non ve lo dico. No, non è vero, non ne ho idea, ma non m'azzardo a provare a trasgredire le regole. Se lo fate, raccontatemi com’è andata, ammesso che siate ancora vivi per raccontarlo.)
A questo punto selezionate il programma che fa solo impasto e lievitazione, senza cottura (nella mia è il programma 8): dura circa un’ora e mezzo, ma io lascio l’impasto dentro la macchina almeno il doppio del tempo, o anche di più. Diciamo che tre ore sono sufficienti. Qualche volta ho fatto l’impasto prima di andare al lavoro e al mio ritorno l’ho trovato che stava bussando allo sportello della macchina chiedendo di uscire e chiamandomi mamma. Io lavoro sei ore al giorno; se voi lavorate otto, rischiate che al vostro ritorno l’impasto voglia che gli regaliate il motorino.
Una volta estratto l’impasto dalla macchina, dividetelo in tre palle e mettetelo su un tagliere o su un piano infarinato.

RICONGIUNGIMENTO DELLA RICETTA
Accendete il forno e portatelo alla temperatura massima. Se nel vostro forno non entrano tre teglie per la pizza e non potete cuocerle tutte insieme, tenete protetto l’impasto rimanente: lasciatelo dentro la macchina o sotto gli strofinacci al caldo. Stendete ogni palla d’impasto roteandola in aria in perfetto stile acrobatico-partenopeo. In alternativa (non ditelo a nessuno, ma lo faccio anch’io) stendete la pasta con le mani. Io la stendo su un foglio di carta forno e poi la trasferisco dentro la teglia precedentemente unta (sempre olio, sempre quello che sapete).
In realtà ho sviluppato una tecnica complicatissima che vi farei vedere se avessi un marito che mi fa un video mentre la applico. Ma dovete sapere che il marito, efficientissimo come cuoco, circa otto anni fa ha invece cominciato a girare un cortometraggio in associazione con un amico (altrettanto riflessivo), e non ha ancora finito. Io ci metto già da sola diversi mesi tra la pubblicazione di due ricette (pessima abitudine che ho promesso ai miei 2,5 lettori di perdere), se aspetto anche che il marito mi faccia il video faccio in tempo ad andare in pensione. E quindi fatemi la cortesia di fingere di capire quello che sto dicendo: io prendo l’impasto tra le mani e, tenendolo sospeso, lo stiracchio dal centro verso i bordi facendo nel contempo un movimento rotatorio. Si capisce, no? Ecco, fatelo anche voi, oppure mettete l’impasto sulla carta forno, spiaccicatelo con le manine come meglio vi riesce e poi trasferitelo nella teglia. In ogni caso, se ripassate di qua nel 2029, potrete trovare forse il video.
Lasciate un po’ di bordo e condite la pizza con il pomodoro, la mozzarella a dadini ed eventuali altri ingredienti a vostro piacimento, concludendo con un filo d’olio. Ricordatemi, in tema di condimenti, che alla fine vi devo dire qual è la pizza più buona del creato. Intanto infornate la pizza, fate cuocere 10-15 minuti (dipende dal vostro forno: tenetela d’occhio), sfornate, stegliate (stegliare: v. tr., togliere qualcosa dalla teglia. Es. “porca maremma maiala, mi sono ustionata un dito mentre stegliavo la pizza”. Sì, l’ho inventato io, e per quanto ne so non esisteva nemmeno “impiattare” prima che lo inventassero i cuochi della tv, va bene?), mangiate e godete.
Nel raro caso che ne avanzi (a me queste cose non succedono ma non so se mi possa fidare di voi tutti), sarà buona anche il giorno dopo scaldata al microonde. 

Alcune possibili varianti interessanti sono: sostituire parte della farina con la semola per ottenere un impasto più croccante (io uso 50 grammi di semola su 500 di farina); aggiungere mezzo cucchiaino d'aglio in polvere, o uno, o più, all'impasto per ottenere una pizza scacciavampiri.

---AGGIORNAMENTO DEL 2013---
La variante definitiva però la otterrete solo grazie a lui, l'autoregalo di Natale 2013. 10 minuti di preriscaldamento, 4 minuti di cottura ruotando la pizza di mezzo giro dopo 2. Non avete bisogno di sapere altro. E otterrete una pizza che definirete suprema in mancanza di aggettivi migliori. Fidatevi e investite i vostri risparmi, vedrete che poi mi rammenterete.
---FINE AGGIORNAMENTO DEL 2013---

E ora, come promesso, ecco la pizza più buona del creato. Si mangia a Colignola, ridente località alle porte di Pisa di cui sono originaria, poiché la famiglia di mio nonno proveniva da lì. Per chi conosce la zona: vanto altolocate ascendenze contadine, insomma, e ne vado assai fiera. Non mi pagano nemmeno loro, ma la pizzeria si chiama Capodimonte, e la pizza si chiama “speciale”. Reca su di sé scaglie di grana, rucola (cruda, ovviamente) e olio al tartufo. In grave crisi d’astinenza me la sono riprodotta anche a casa, ma quella che fanno lì è perfetta, sublime.
Se ci andate, dite loro che vi manda una che è amica di uno che aveva mangiato gli gnocchi sulla pizza. L’evento ebbe luogo una ventina d’anni fa, ma penso che se ne ricordino ancora. E sì, ho un amico che per una serie di circostanze troppo lunghe da spiegare mangiava gli gnocchi sulla pizza, e anche di questo vado assai fiera.

venerdì 24 febbraio 2012

L'ANGOLO DELLA POESIA 4


(dove l'Autrice si cimenta per la prima volta nella lingua della terra che con tanto amore l'ha accolta)

O guidatore
che mi sorpassi sulla statale
accostandoti sì
che il mio esterno coscia sinistro
ne ottenga
una celere epilazione
(di cui altresì necessitava
ma
non è argomento lirico questo)

sii grato alla pargola
che rechi teco
e che s'affaccia al finestrino
rimirando il mio casco
ornato
dalla celebre nivea felina oropriva

ella
(la pargola
non la felina)
(è meglio spiegartelo
ché dal modo in cui guidi
non mi pari così intelligente)
ella dicevo
trattiene la mia mano

le sue caste pupille
non vedranno mai
ciò che il mio cuore
leva alto
per te solo:

un ghigno*.

*per i non locali, così conosciuto in italiano